Debito di vita oppure volontariato?

In certi periodi della mia vita ho frequentato associazioni e gruppi che facevano volontariato.
Ricordo il primo. Avevo quindici forse sedici anni e andavo due volte a settimana a prendere un bambino dell’orfanatrofio per portarlo a passeggio. Oggi una cosa del genere non sarebbe nemmeno lontanamente possibile. Ricordo il mio sentirmi grande, il viso e gli occhi di Federico come se lo avessi ancora davanti. Questa esperienza è durata circa un anno e mezzo e poi la mamma naturale di Federico lo ha portato con sé e io non ne ho più saputo nulla. So solo che quando ho avuto tre figli belli, sani e intelligenti ho maturato un forte sentimento che chiamo il “debito di vita”. Non c’è merito per la loro bellezza, intelligenza e sanità, c’è solo grazia. L’idea del “debito di vita” si è costruito dentro di me negli anni e ha preso molte forme.

Dicevo che ho visto diverse realtà di volontariato ma, per la verità, ho maturato verso di loro un sentimento di sconcerto. Aiutare non è facile. Non basta la buona volontà. Per “aiutare” veramente ci vuole cultura, sensibilità, rispetto, apertura mentale. Bisogna essere privi di rispecchiamenti su chi si aiuta. Occorre saper riconoscere perché, fra le moltitudini di persone che hanno necessità, si sceglie una particolare realtà cui venire in soccorso dato che una cosa è certa: chi aiuta vorrebbe, o avrebbe voluto, a sua volta essere aiutato. Per aiutare veramente bisogna togliere il velo del proprio personale bisogno sotteso.
Spesso il gioco di sponda fra volontario e “aiutato” non è chiaro e non è nemmeno facile chiarirlo. Infatti risulta elementare comprendere che la sensibilizzazione a certi dolori personali si faccia spinta a fornire supporto a chi, come loro, stia affrontando percorsi di vita analoghi.  L’ “aiuto” che viene offerto però rischia di essere solo l’effetto di uno spostamento personale. Si offre a qualcuno ciò che non si è stati in grado di offrire a qualcun altro in situazioni precedenti oppure ciò che avremmo voluto ricevere. Spesso il motore di fondo del volontariato è il rifiuto subito, la negazione del proprio amore, della propria capacità di “stare vicino”  o “di avere vicino” qualcuno. La conseguenza di questo è che non sempre l’azione benefica riguarda direttamente il beneficato, non sempre l’attenzione del volontario è veramente diretta a chi sta soccorrendo ma piuttosto a una parte di noi che si nasconde nel gioco dello scambio fra amore e rifiuto. Non sempre quindi si aiuta veramente.
Questa considerazione mi ha allontanata da tutti i gruppi di sostegno che via via ho cercato di frequentare perché non li trovavo veramente caritatevoli ma piuttosto centrati su questioni personali irrisolte.

Oggi, tuttavia, mi sono coinvolta in una raccolta fondi. Mano a mano che la organizzavo mi sono spesso domandata quale fosse il mio scopo interiore. Cosa è scattato in me da fare sì che le mie energie si dedicassero alla raccolta di soldi per le popolazioni indigene del Perù.
Perché, per esempio, non ho attivato le mie risorse verso i migranti, o verso le vedove indiane, o i bambini delle guerre di ogni paese alle cui realtà sono da sempre molto sensibile?

Ancora non lo so.
Qual è la mia questione irrisolta?
Sto cercando di afferrarla…
Sicuramente sono più d’una.

So che all’inizio del lockdown in Perù, mentre da noi infuriava il covid nel suo peggiore momento, mi trovavo lì. Le persone sghignazzavano tacciando di pavidità coloro che mettevano la mascherina. Si diceva che il covid era una montatura politica e che in realtà non c’era alcun rischio. Io ascoltavo le notizie dall’Italia, la conta dei morti, le bare fuori dal cimitero e mi dicevo che se anche ci fosse un’operazione di politica mondiale sottostante al covid, certamente l’infezione comunque esisteva. Parlavo con le persone e dicevo loro “lavati le mani e metti la mascherina”, “tieni la distanza, non è una scemenza, a casa mia c’è un eccesso di morti”.

Vedevo le scritte “jo me quedo en casa” e guardandomi attorno le baracche, o tetti di lamiera, i pavimenti di terra con semplici materassi buttati là erano il tipo di casa. La vita in Perù è fuori, il cibo si consuma accoccolati da qualche parte. La gente vive, guadagnando il suo soldo un giorno per l’altro.
Ben diverso il suono del nostro “io resto in casa”, sicuramente meno torrido, meno polveroso, meno umido.
Mi si scatenava dentro una sorta di risentimento verso il misconoscimento della “preveggenza italiana”, verso chi mi ha tacciata di essere facilmente condizionabile e paurosa perché non ho accettato di andare in un ostello che poi il tempo ha riempito di persone malate di covid e dengue.

Ecco, per esempio … il tema della preveggenza mi riguarda. Il non essere ascoltata o presa in considerazione, è un lungo argomento nella mia vita. Nemmeno l’avere avuto ragione a posteriori mi ha mai dato soddisfazione, semmai un sapore dolceamaro simile al gusto del rimpianto.
L’incomprensione, la cecità, l’impossibilità di capire sono tutti argomenti importanti per me. Io credo l’ignoranza sia un grande difetto e non mi riferisco all’ignoranza letteraria, alla quale sicuramente nella mia vita ho affidato molto tempo di ricerca, ma a quella animica a quel modo di ignorare la vastità della vita, delle sue relazioni naturali. L’infinita meraviglia delle leggi della natura mi rende golosa e avida di esperienze al punto da mettermi costantemente a rischio pur di prendere contatto qualcosa che posso sentire “vero” almeno per un breve tempo.

E così oggi il mio gioco di “fare mondo” nasconde il desiderio di avere sempre più compagnia e, come allora in Perù portavo un pezzo di Italia, così oggi sento il bisogno di portare in Italia un pezzo di Perù.