Perù 2. Storie di counseling e supervisione

Sono nel mio letto peruviano.
Non è un letto qualunque.
E’ bellissimo, in mezzo ad una stanza enorme.
Alla mia sinistra c’è una finestra di quattro metri per due. Non è una vera finestra infatti non ha vetri ma solo una retina leggera, di quelle che non lasciano entrare le zanzare ma che in compenso lascia entrare la laguna, il gracidio delle rane e l’aria spostata dagli avvoltoi quando passano. Le scimmie non si fanno vedere da questo lato della stanza. Stanno fuori dalla porta, che è a destra, sopra gli alberi a pencolare. Meno male. Non mi devo preoccupare di un’incursione scimmiesca attraverso la fragile rete che divide me da coccodrilli e iguane che placidamente fanno la solita vita nel fiume natio.
Se penso alle volte che sono andata in tilt per un geco in stanza, mi viene da ridere.
Armata di ciabatta oggi sono in grado di ammazzare qualunque cosa strisci, voli o sfrecci nella mia zona di confort. A volte mi limito a urlare addosso agli ospiti inattesi: “Esci!!! Ti ho detto di uscire di qui!!!” Apro la porta dal lato della foresta con l’indice puntato come la paletta di un vigile e, pestando i piedi per dare una direzione, cerco di interagire con la cucaracia di turno insegnandole l’italiano e il suo posto al mondo a suon di ciabattate.
“Fuori dalla mia stanza!”
“Non voglio trovarti più qui! Non sotto le mie lenzuola, non dentro la mia valigia e nemmeno affogata nel mio sapone mentre agiti le tue antennine con quel fare innocente.”
“Fuoriiiii!”
Meno male che a un certo punto o arriva il sonno o la notte finisce.
Che stress. Nella jungla ho finito un litro di insetticida no animal friendly in 10 giorni. Sono stata divorata da insetti di ogni genere e specie fino a farmi sanguinare le gambe dal tanto grattare. Zanzare, pappataci, moschiti, piccole vespe, tafani, bestie volanti mai viste prima, temibili formiche rosse, enormi formiche nere e cos’altro che non ho saputo riconoscere mentre mi trovava nutriente.
Rafael mi vede ogni giorno più martoriata e, bevendo sornione la sua tazza di acqua calda, ride: “Eh, … sei la terra promessa delle zanzare tu!”
Sono strani giorni.
Lo sono per tutti e per ognuno in modo diverso.
Certo io me la sono data ricca in fatto di stranezza.
Il Virus ha spiazzato chiunque ma prevalentemente le persone sono state stanate dalle loro abitudini a casa propria, con i detersivi in ordine e la cassetta della posta a fianco al cancello. Io no, non ero per niente nelle mie abitudini quando sono stata assalita dalla pandemia. Uscivo da una jungla ancora più junglosa di quella dove mi trovo ora, dopo un periodo di isolamento e di esperienze psichedeliche. Ero ebbra di me stessa, incendiata da ciò che di nuovo avevo sperimentato, ansiosa di condividere le mie scoperte con chi amo. Difficile rendermi conto in tre ore che la vita in soli venti giorni era andata così veloce da cambiare i suoi paradigmi, così tanto veloce da lasciarmi indietro, spaesata come una neonata sotto al neon della sala parto.
Ho recuperato la distanza temporale alla velocità della luce. BAM! Cerco una via d’uscita dal Perù. Prenoto un volo per il Costa Rica per l’indomani. BAM! Cancellato. BAM! Non si può più uscire dal Perù. BAM! Nemmeno circolarci dentro. Perdo l’ultimo posto per Lima. BAM! Da domani devi stare chiusa. Chiusa dove? BAM! La Fortuna mette i miei piedi dentro ad orme comode. Khyati mi dice “vieni con noi.”
Così ora sono qui. Nella bellissima stanza. Da sedici giorni.
Sto facendo esperienza.
Mi faccio da counselor.
Mi parlo con fare professionale.
Senza suggerirmi le risposte anticipandole nelle domande: “Pensi che ANDRA’ TUTTO BENE ?”
Senza interpretare: “Spiegami meglio quello che hai detto, se ho capito bene … ti senti confusa ma … confusa come?”
Io, ottima cliente di me stessa, nonostante anni e anni di autoanalisi, continuo a essere infelice fra le otto e le undici della mattina, ad avere immotivati pensieri tristi, e a sentire che … . Ogni sei mesi minaccio di licenziarmi e invece continuo a pagarmi lo stipendio. Studio, mi aggiorno, faccio nuove esperienze . Così, nel corso del mio autocolloquio, frugo nel mio archivio di risposte alla ricerca di qualche cosa che mi suoni almeno un poco originale, che sia valsa la pena di tanto girare insomma.
Rimango interrotta nel mio processo di autoguarigione, autoduepalle basita davanti alla pioggia che, come piove qui, nel Veneto manco ce lo sognamo.
L’acqua qui non piove, cade, anzi meglio precipita, llueve. Non a gocce ma a catene. Non una a fianco dell’altra ma una dentro l’altra con l’effetto che quando le catene d’acqua toccano terra, frizzano.
Tutto questo non un per un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora.
Tre giorni.
Senza sosta.
Tutta la natura comincia a nuotare. Chi aveva ali ora ha pinne. Chi le fllip flop ora ha stivaloni. Gli uccelli che prima stavano sugli alberi ora si tuffano in picchiata in pozzanghere grandi come laghi e profondi quanto basta per vederci dentro pesci. Gli aironi si avvicinano. Loro amano appoggiarsi su steli sottili che spuntano dall’acqua. Bello vederli quando si alzano in volo. Bello anche vederli stare immobili sulle canne.
Poi smette di piovere, l’acqua si ritira, evapora o viene bevuta dalla terra. I pesci si sentono soffocare e così trasformano le pinne in ali. Li vedo saltare fuori dall’acqua.
Chissà che storia hanno.
Chissà se i pesci salterini sono coraggiose vedette che sfidano i loro limiti pescini e riescono a vedere dove è meglio andare. Chissà se riprecipitando nella melma boccheggiano: “Ehi amici!! Di là! Il fiume è di LA’!!”
Chissà se gli altri pesci gli credono e seguono la direzione o se invece: “dio .. quel lì l’è un sbruffon … el sa tuto lu. Vaghe ti con lu, che mi vegno dopo.”
Quelli, i malfidenti, di sicuro muoiono perché nel giro di poche ore la palude si fa più di terra che di acqua. Quelli che “ci credono” forse trovano la via del fiume e forse no. E chi lo sa.
Certo è che questa tragedia accade spesso. In quindici giorni l’ho vista già due volte.
Mah, e poi … a me pare una tragedia ma forse per loro non lo è e ci sguazzano.
Domani vado a guardare nella melma se ci trovo pesci morti.

Olivia Flaim
Pucallpa 30 Marzo

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FOTO DI STEFANO GOLINELLI