Le ali delle donne

Scrivo con fatica in prima persona. Sono più abituata a nascondermi dietro i teoremi e le congetture.
E’ un rischio per me quello abbandonare il linguaggio impersonale: le Donne, gli Uomini … .
Mi richiedo ora di essere presente in prima persona il più possibile perché non voglio arrogarmi nessuna generalità e mantenere il privilegio di dire senza voler convincere.
Qualcuno si riconoscerà, altri avranno da dire.

Le donne fanno la vita mettendo al mondo quintali di esseri umani, maschi e femmine.
Li covano e li allattano.
Hanno un senso della vitalità sognante.
Mai metterebbero al mondo figli se potessero rappresentarsi, anche solo per un istante, che potrebbero partorire assassini, stupratori, ladri o vigliacchi. Eppure a molte è capitato. Anche i reprobi della vita, ma che non lo sono mai nello spirito, sono nati da donne che inconsapevolmente hanno accettato il patto con il fato, il carattere e la fedeltà alla vita.

Io durante il tempo delle mie gravidanze non presagivo questa possibilità. Temevo, questo sì, per la salute dei miei figli, per la loro perfezione organica ma mai una volta sono stata assalita dal dubbio sulla possibilità che avrei potuto mettere al mondo una persona nociva.
Anzi il sogno di mettere al mondo un’umanità “migliore” mi ha ingravidata. La qualità della mia illusione è stata stratosferica, ammaliata, vivida e inconsapevolmente fiduciosissima nella generosità della vita.

Per quante di noi vale questo?

Conosco l’orgasmo multiplo che fonde un seme e un ovulo con il giusto momento del tempo e dello spazio.
In tutte e tre le mie gravidanze sapevo di essere incinta prima di arrivare al bidè.
Si tratta di un evento preciso come il suono di uno start in una gara di corsa.
Sapevo, già sin dal primo barlume della generazione, che sarei stata fedele al progetto di vita che mi si era iscritto dentro, che ne avrei avuto cura. Non sapevo ancora della profondità dell’obbligo mai più rinunciabile che nasce dalla maternità. Ho conosciuto negli anni le tante facce di questo pegno d’amore, il suo patto non divorziabile, il peso e la gioia di crescere i miei figli, la fedeltà a quello squarcio di vitalità che l’universo mi ha regalato.

Ecco il punto.

La maternità accende il tema della fedeltà a priori.
E’ un patto a prescindere, non un accordo.
Questo tipo di fedeltà è un trascendersi dell’obbligo biologico e animico in amore.
Come donna questa possibilità mi è connaturata. Non è stato il frutto di un lavorio sulla mia personalità ancora giovane: è accaduta e l’ho accolta con la consapevolezza immediata di avere contratto un debito di vita del quale ancora oggi non mi è definita l’ampiezza. Conosco quindi la fedeltà.
Questo punto, la fedeltà come ascesi amorosa, riguarda tutte le donne madri indipendentemente dall’avere voluto o meno di rimanere gravide, indipendentemente anche dall’avere o no avuto cura dei figli. Anzi per quelle donne il patto di fedeltà con l’anima della vita gioca una partita più dura sul terreno della colpa personale e sociale.

Gli uomini, i maschi, non conoscono questo tipo di fedeltà. Girano intorno all’argomento lo esplorano su un piano esistenziale diverso, mentre le donne che conoscono il patto vitale con la fedeltà ma che non lo avvertono in modo così radicale, si interrogano sul perché tanta parte del fallimento delle loro relazioni amorose prenda origine da questioni di infedeltà.

Gli uomini, quelli che ho conosciuto io perlomeno, non hanno accesso alla potenza segreta del ventre che si gonfia e si storce, al dolore estatico del parto. Tuttalpiù si fanno curiosi, attenti indagatori intorno qualche cosa che è loro preclusa. E in ogni caso mi risultano essere rari. Rientro in una maggioranza non privilegiata. Anche colui che era lì, accanto a me, ha temuto lo sconquasso delle viscere che insieme alla vita cagavano merda e sangue. Ho visto una ritrazione di fronte al mio pulsare contrazioni per ore e ore. Così non gli è stato tangibile che, misto al dolore del parto, se ne è contemporaneamente acceso uno più profondo e sottile: quello della separazione dalla creatura che avevo portato a spasso, con cui avevo parlato nel silenzioso linguaggio delle madri.
Il senso della separazione dal nascituro che avviene in una madre in quei momenti è solo il primo fra i tanti che costellano la vita di una donna che ha messo al mondo figli.

Penso che quando gli uomini, i maschi toccano, anche senza saperlo, la complessità e la potenza di quei momenti, si ritraggono e lentamente cominciano a tradire un patto di genitorialità inespresso e spaventoso a loro per quanto è totalizzante.
Iniziano così a cercare punti più lievi del contatto con le donne.
Il mio compagno di allora, marito, non ha imparato a fare parte con tutto se stesso, integralmente, del disegno di vita di cui è stato artefice.
Ha cominciato ad amare i suoi figli dopo giorni o mesi, dopo che ne ha sfiorato la carne, dopo che i loro sorrisi o vagiti gli hanno intenerito il cuore.
So che questa mia esperienza è condivisa da molte donne, ne abbiamo parlato spesso e tanto.
Gli uomini, il mio di allora, non conoscono la radicalità della fedeltà in questo significato femminile. Ne sono spaventati. Non accedono a quella qualità dell’amore che prescinde ogni condizione.
Forse è questa perdita di opportunità che li fa labili e ostinati nel mantenere delle distanze.
Forse.
Forse è semplicemente che il loro abisso è meno profondo di quello delle donne.
Arrivano, i miei compagni sono arrivati, sino a dove tira la gettata di un’àncora, raramente più sotto di così.
Temono di scoprire sotto al loro livello più profondo, la profondità dell’abisso di una donna.
E mentre le donne, io per prima, ambiscono a mettersi in sicurezza piangendo, arrancando, sculettando al livello dell’àncora, l’uomo si fa assente, distratto e distraibile.
Ho vissuto e ancora vivo nell’ombra dell’àncora che vedevo oscillare sopra la mia testa con le mani tese e i piedi pinnuti, affogata allora non di meno ora.
Persa dietro alla sensazione della completezza che ho vissuto, memore di quell’orgasmo cosmico e del suo palpitare con ali di farfalla fino nel centro del mio essere, sono sprofondata in una solitudine così vasta da riempire gli spazi fra le stelle e il vuoto fra le molecole.
Ho cercato di rinnovare quel patto con l’universo che mi ha fatta madre attraverso la relazione in coppia e la sincronicità erotica, che per mia immane fortuna ho conosciuta.
Ho così traslato la fedeltà che ho tributato alla vita nel momento in cui sono rimasta gravida, con il baratto delle relazioni.

Ascolto storie di donne, raramente gli uomini bussano alla mia porta, e ripercorro la mia attraverso le loro, con occhiali diversi cosicché gli stessi fatti si rivelano a me in prospettive sempre nuove e questa questione della fedeltà, assedia il mio studio, mi assedia.
Personalmente nel rapporto di infedeltà mi ha assediato il dolore, più che per il tradimento, per la menzogna, per la vigliaccheria di chi ti vende brandelli per l’intero e così, costretta dall’altrui bugia ho costruire su quei brandelli come sabbie mobili. Mi sono persa più volte.

La bugia sul racconto della giornata mi ha fatto sentire profondamente imbrogliata e offesa come quando al mercato delle spezie invece di zafferano ti spacciano curcuma. E pure ti senti tonta e impacciata.

Oggi e chissà perché, penso a questa questione della fedeltà sotto questo nuovo punto di vista: come una restrizione ontologica che non risiede nel talento erotico o nella devozione relazionale ma nel programma di vita che per le donne prevede la donazione di quel “tutto se stesse” che il patto con l’ingravidamento e con la nascita richiede. Patto che è iscritto nel corpo femminile e che agli uomini, semplicemente, non è richiesto di stipulare.

Questo di cui scrivo oggi è solo uno squarcio su questo tema.
So bene che, in senso fattuale, le donne tradiscono quanto e forse più degli uomini e non voglio certo fare una questione di genere in materia di fedeltà.

Scrivo di questo e, condividendo, apro una porticina  di possibile nuovo sentimento

Olivia Flaim

3 marzo 2019