Mi piace … non mi piace

Tutti siamo assetati di sollievo dalle fitte trame dell’esistenza e cerchiamo di piacere andando a caccia di piaceri come i segugi in cerca del prezioso tartufo.
Frughiamo nella vita come nel sottobosco, desiderando di trovarne la Via più felice.

Qualche filosofo e molti meditanti dicono che la felicità ha sede nelle emozioni, che è una reazione della personalità e che, per conseguenza, ogni discorso sulla felicità è primariamente individuale.

In questa ottica, la Via della Felicità è un sentiero del tutto sperimentale poiché, passando attraverso il mondo emozionale, coinvolge ognuno in modo diverso. Essendo una Via individuale, nascosta e segreta, la sua esplorazione conduce verso luoghi e avventure che aprono le porte ai lati contrari delle emozioni.

Così, chi cercasse di trovare Felicità in un rapporto di coppia, potrebbe trovarsi a sperimentare la più feroce solitudine, la gelosia, la fredda incomprensione; chi desiderasse il successo, si farebbe ardito e potrebbe conoscere il sapore acido della perdita e del discredito sociale.

La ricerca della felicità quando conduce a sperimentare il lato contrario di ciò che è suo corollario fa conoscere per intero la sua Via, ripulendola dalle illusioni, dalle aspettative sociali, e da quelle premesse culturali che a priori ci dicono cosa è bene e cosa fa bene.

Perciò riflettere sui lati opposti e rovesci, parlando di felicità, ha senso, così, nella Via della Felicità, molto spazio prende il “mi piace” “non mi piace”.

Il gusto è senso che permette la soddisfazione di un’esigenza sia fisiologica, attraverso il cibo, che estetica, attraverso “il bello”.
Come mangiamo, di cosa ci nutriamo, determina il nostro stato di salute e la nostra vitalità, anche in senso metaforico. Il “sapore delle cose” e il “buon gusto” si fanno garanti di sensibilità e di bellezza. Il gusto è, infine, la matrice di ogni critica e del giudizio. Solo ciò che è sentito “buono” e “bello” avvicinerà alla realizzazione del sentimento della felicità.

Il gusto è quindi un senso-guida nella ricerca della Felicità e trova nel suo antagonista, il dis-gusto, una delle porte verso la conoscenza di se stessi e la scelta consapevole e personalizzata di ciò che rende individualmente felici. Il disgusto segna il confine fra ciò che desiderabile e ciò che non lo è. Il disgusto è una reazione emotiva importante e segna il passaggio fra il “mi piace” e il “non mi piace”.

Provare disgusto, spesso segnalato nelle forme della nausea, della vertigine o del senso di schifo, è un avvertimento che riguarda la prossimità del buon-gusto e quindi della possibilità di criticare, scegliere e di discriminare fra il piacere e la soddisfazione o la loro negazione.

Somaticamente il disgusto transita attraverso i sensi dell’olfatto, del gusto del tatto e della vista. Solo l’udito ne appare escluso, in quanto l’informazione sensoriale veicolata attraverso il suono difficilmente ha un contenuto materiale. L’udito è più sentimentale che sensibile ed è tendenzialmente evanescente e privo di forma, essendo sollecitato da una pura vibrazione.

Emotivamente il disgusto è una reazione psicologicamente molto complessa perché da un lato difende e protegge da ciò che si manifesta come “schifoso”, dall’altro soggioga la percezione affascinandola e impedendole di liberarsi con facilità da ciò che lo ha provocato.

Il disgusto è sotteso ai sentimenti di ripugnanza, avversione e sgradevolezza. Queste sensazioni sono fortemente collegate al senso di contaminazione .

Le cose brulicanti, tiepide, mollicce, flaccide, poltigliose, verminose, tumultuose, maleodoranti, insidiose, traditrici e brutte, evocano disgusto e rifiuto.

Esse tutte stanno in una zona di confine fra vita e morte, fra il nutriente-vita e il velenoso-malattia-morte. Sono assimilabili al cibo gettato che, putrefacendosi, diventa pattume.

I processi di putrefazione raccontano del passaggio fra vita e morte, quello che i tantrici chiamo bardo. Il poltiglioso e il tiepidoso stanno fra ciò che ha appena perduto una forma individuale e non ne ha ancora guadagnata una collettiva.
Le cose brulicanti ci chiamano a guardare ciò che inevitabilmente, nella nostra forma di corpo, siamo destinati a diventare. I processi di putrefazione rivelano il significato convenzionale di ciò che è detto essere vita, poiché anche un corpo morto è pieno di vita, brulicante di larve, insetti e farfalle.

E’ qui che il fascino delle cose disgustose si accende ma il desiderio è timido: voler vedere, con occhi chiusi però o timidamente da dietro il velo delle ciglia; voler toccare ma proteggendo le mani con guanti di plastica, ciò che realmente si è.

Il fascino del disgustante risiede nella contiguità e nella prossimità: se ne è toccati nonostante i guanti, nonostante il fazzoletto sul naso. Il disgustante tocca intimamente. Esso è affascinante e attraente per la sua componente vitale: non ce ne si può allontanare pur provando ribrezzo. Non si può andarsene, perché il suo oggetto è parte intima, interna “del se stessi”. Perciò attira, seduce e avviluppa.
Si subisce così la fascinazione del proprio lato interiore “negativo”, affine a quello digestivo ed escretivo e si è soggiogati dalla seduzione di quella parte appiccicosa recondita, non vendibile, non allontanabile che è la fonte sorgiva della mai sopita vergogna di se stessi.

La fascinazione per il disgustante esprime tutta la sua forza di attrazione nei “mondi di mezzo”, regni emblematici, luoghi di transito fra uno stato e l’altro. Luoghi di cui la putrefazione è uno dei guardiani di soglia essendo deputata a purificare ogni elemento togliendo tutto ciò che aggiungendosi lo ha reso “misto”.

La putrefazione è una solenne celebrazione dei processi di trasmutazione i quali tendono alchemicamente al perfezionamento della materia e dello spirito rivelando in modo inconscio il perché della sua fascinazione: la putrefazione e il suo odore disgustoso adombrano la bellezza e l’intimità con il sentimento della purificazione e della rinascita.

Putrefazione e trasmutazione infatti narrano della parte ancora viva di ciò che, già morto in una forma data, sta continuando a produrre vita in modo informe. Putrefazione, puzza, brulichio e disgusto accendono in noi il sentimento profondo ma inconscio della possibilità che la morte infine non esista, essendo solo trasformazione.

Cosa rimane di ciò che è stato? Cosa diventerà questo rimasuglio?

Ecco il perché di certa curiosità morbosa e del fascino antisociale, invincibile e segreto per ciò che crea disgusto.
Così, ecco che infine, compare Eros!
Già lo si sa, che tutte le zone di confine sono fortemente erotiche e che nel rapporto fra vita e morte la contiguità, il passaggio dall’uno all’altro stato accendono, contemporaneamente al disgusto, anche il desiderio e la speranza di passare a nuova vita.

Disgustosi sono certi comportamenti quando attaccano il senso di pulizia e di ordine sociale, quando sovvertono ciò che si ritiene giusto o che è pensato nell’ordine della positività della vita.
Marcio è un sistema politico corrotto, pervertito ai suoi scopi originari e diretto unicamente verso il bene di pochi.
Marci sono avvertiti i comportamenti sessuali che non stanno nell’ordine della riproduzione e della sessualità familiare.
Più marce e disgustose di altre sono le malattie sono avvertite quelle derivanti dalla promiscuità e dalla sporcizia: dai pidocchi all’aids.

Ecco che “il marcio” apre le strade al nuovo attraverso la ribellione, la tolleranza, l’integrazione.

Quando il senso di disgusto ci coglie, spesso siamo di fronte ad un “resto” una “rimanenza” e si ha l’opportunità di vederle da vicino sapendo che testimoniano qualcosa che è stato, una parte di un tutto che ora si butta.

Ecco perché il disgusto è un sentimento che a volte compare al termine delle relazioni, quando l’esito della spesa affettiva è visibile per effetto della distanziazione emotiva.

Ora si vede il livello di compromissione e di perdita del “sé felice” che certe relazioni producono. Sul disgusto relazionale frasi del tipo: “non mi sono fermata al tempo giusto”; “la sua persona mi fa schifo” sono comuni. Ciò che così finisce, facilmente ha tentato a lungo di evitare la saturazione del gusto, prolungando fini annunciate e conservando troppo a lungo ciò che, lasciato a se stesso, avrebbe puzzato presto. Ci si è turato il naso ben sapendo, senza volerlo sapere, che ciò di cui si è rifiutato di sentire l’odore era entropicamente già teso verso la sua fine.

 

Ecco che mettere il naso in ciò che crea disgusto, è significativo per la propria felicità. L’allontanamento dal disgustante infatti non permette la visione del “resto che sarà” e più ancora non permette la  separazione dal suo oggetto scatenante invischiando nella confusione dei sensi i sentimenti e gli affetti che non sono direttamente coinvolti nella ragione più intima e vera del rifiuto-disgusto.

Il rischio di non affrontare il dis-gusto comporta di gettare nella pattumiera insieme al marcio anche il buono.

Il disgusto non indagato, infine, impedisce il passaggio al lato trasmutato della vita, ne preclude l’esperienza e circoscrive recintandola la zona di realizzazione della nostra felicità.

Olivia Flaim

Ringrazio di cuore Paola Sofia Baghini con la quale ho condiviso molte delle
riflessioni qui esposte.

Olivia Flami