3. Indonesia. Oscuramenti

La perdita della possibilità di dialogare mi fa paura.
Usare la violenza per reagire alla violenza è una strettoia tagliente.
Una illogica conseguenza della perdita di valori comuni.
Un crinale sul quale ogni passo si fa incerto.

Ero a Jakarta, nell’isola di Java. Ero finita lì per un lancio di Tarocchi.
Eh, già!
Capita viaggiando senza una meta o un leit motiv di stentare a decidere dove andare. Molti viaggiatori che ho conosciuto andavano chi a caccia dell’onda perfetta, chi di balene, delfini, oranghi e più o meno sapevano cosa volevano fare. Io decidevo il mio passo all’ultimo minuto, un minuto che a volte, nell’indecisione, diventava giorni.
Alle Gili pensavo di essere in panne, arrotata dentro a chissà quale tortone psicobloccante che mi impediva di decidere dove, quando, davanti a una colazione, mi metto a chiacchierare con un tizio. Viaggiatore esperto, lui, in moto da ormai quattro mesi e senza alcuna intenzione di interrompere il suo viaggiabondaggio. Gli dico come mi sentivo e lui, sorridendo sornione e con fare protettivo, mi dice: “E’ normale! Paura, ansia a volte panico, compaiono simultaneamente all’eccitazione per la ri-partenza. Guarda –mi dice- quando ho deciso di spostarmi e non riesco a decidere dove andare, me la gioco ai dadi!”
“Ah, così si fa! Ok, ok…”, dico.
Prendo i miei Tarocchi e il responso si fa chiaro illuminando Java a scapito di Flores, delle Raja Ampat e di Sumatra.
Prendo il biglietto prima di cambiare idea e di rientrare nel tortone dell’indecisione e così il giorno dopo arrivo a Jakarta.

Jakarta è difficile per una che non ha meta. Il traffico pazzesco mi ha inglobata nel suo flusso come un batterio dentro al plasma. Non sono riuscita a rifiutarmi di seguire la corrente, non sono riuscita a decidere dove andare. Non appena mi saliva in mente una meta, pareva che la città mi si ritorcesse contro impedendomi ogni movimento. Le persone erano gentilissime quando chiedevo informazioni ma, semplicemente, mi spedivano in posti diversi da quelli dove avrei voluto andare. Complice l’inglese che si trasforma in una lingua inventata lì per lì, come se fosse una lallazione da bambini. Incomprensibile il mio inglisc a loro e il loro indlish a me. Complici il rumore di fondo della città e il caldo fotonico triplicato dagli scarichi delle macchine, mi sono sentita vagamente minacciata; non in pericolo realmente ma confusa e persa, al punto da decidere di andare via da Jakarta prima del previsto.
Dopo una settimana di altre città, arrivo a Yogyakarta. Mi sistemo in un ostello e accendo Facebook.
Erano un pò di giorni che non lo guardavo e mi sono sorpresa di trovare la Home esattamente con gli stessi post che ricordavo di avere già visto.
“Accidenti”, mi sono detta, “Continua lo stato di semiallucinazione di Jakarta, porca miseria … anche questo posto non vibra bene con me …”
Anche Instagram, Whatsapp e Twitter erano nelle stesse condizioni, fermi a due tre giorni prima. Nessuna nuova foto. Mi sentivo stranita quando il proprietario dell’homestay, Peter, mi si avvicina e mi dice: “Se stai cercando di guardare un social, è inutile che ci provi. Il governo li ha bloccati. Dopo le elezioni a Jakarta c’è stata una rivolta, ci sono le barricate in città, i gas lacrimogeni, le bombe ad acqua e anche i morti.”

Ecco. Ero lì. Venivo da un posto dove pochi giorni dopo esserci stata si è aperta una guerra civile. Occultata. Limitata la possibilità di comunicazione. In un nanosecondo la “rete” si è disintegrata. Qualche cosa su cui mai avevo riflettuto come “veramente importante”, era oscurato.
Senza preavviso. Senza comunicazione ufficiale.
Mi sentivo isolata. Veramente isolata.
Chiedo a Peter: “E quando torna tutto normale?”
Risposta seraficamente indonesiana accompagnata da sorriso sincero: “Quando il governo lo decide.”

Il governo ha deciso di restituirci i social circa quattro o cinque giorni dopo la rivolta, quando tutto è “ritornato sotto controllo”.

Quale controllo?
Il Controllo.

Ecco. In un attimo succede qualche cosa che può far slittare verso situazioni impreviste.

Il crinale su cui ognuno di noi cammina si assottiglia e un forte vento spinge tanto da gettarti nel baratro, da un lato o dall’altro.
Verso una inattesa guerra civile, verso la disumanità, verso l’illegalità, verso la sacrosanta ribellione, verso la difesa dei diritti anche contro il diritto stesso.

E’ un soffio, il peso di un capello che sposta equilibri che pensavamo stabili e ci si può trovare disorientati dentro a una realtà che ha divorato ogni opportunità di interazione.

Olivia Flaim

Foto: il Tempio Petak Sembilan nel quartiere Glodok Jakarta.